Durante i primi quattro colloqui, oltre a favorire la relazione affettiva creando un ambiente sicuro, cerco di comprendere il funzionamento di personalità dell’individuo ed il senso dei sintomi intesi come “migliore soluzione possibile” trovata dal soggetto per raggiungere un equilibrio. Se necessario, effettuo uno valutazione psicodiagnostica attraverso reattivi psicometrici o strumenti psicodiagnostici o invio presso centri specializzati per la somministrazione di strumenti diagnostici. Al termine dei primi colloqui, o eventualmente della valutazione diagnostica, consiglio il tipo di trattamento indicato e l’eventuale necessità di integrazione con altri professionisti o altre strutture sul territorio (psicoterapia individuale, di gruppo, farmacoterapia, day Hospital ecc)
Nel Campo Psicopatologico, per uniformare il linguaggio, si fa riferimento al DSM V (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali ) in cui si effettua una diagnosi multi assiale.. Nel DSM, in parole povere, vengono forniti una serie di sintomi la cui presenza al di sopra di un certo livello (almeno nove, almeno 7 ecc) indicherebbe la presenza di un disturbo. Non si fa mai riferimento ad una “malattia”, in quanto tale termine rimanda ad una correlazione tra una serie di sintomi e le cause sottostanti. purtroppo ancora labile in psicologia. Il DSM evidenzia bene la necessità, prima di fare una diagnosi, di escludere una condizione medica generale che possa giustificare i sintomi. Per ogni disturbo il DSM, inoltre, sottolinea l’esigenza che la condizione clinica riportata alteri il funzionamento globale del soggetto. Questo significa che una situazione, deve modificare la vita del soggetto riducendo ad esempio le relazioni sociali o alterando il lavoro per essere ritenuta “patologica”.
Per quanto io consideri la diagnosi secondo il DSM utile per uniformare il linguaggio degli addetti ai lavori, importante in quanto fonte di ricerca, credo che in un processo terapeutico, sia fondamentale fare un’analisi della personalità, dell’ambiente socioculturale e familiare che fanno da sfondo ma che acquisiscono un valore normativo in certe tipologie di contesti.. Allo stesso modo è importante fare un quadro della famiglia d’origine per capire il malessere spesso celato dietro a dinamiche familiari complesse, gli stili di relazione e d’attaccamento (es la tendenza a creare rapporti di dipendenza o a sollecitare l’autonomia, la tendenza a drammatizzare, l’assenza di uno o più genitori, l’eccessiva presenza che potrebbe ostacolare l’autonomia, lo stile comunicativo, il livello di emotività familiare ecc). Inoltre è importante valutare quanto la famiglia possa essere utilizzata come risorsa nel percorso terapeutico. Spesso uno o più membri rappresentano per il soggetto degli elementi importanti a cui “appoggiarsi” in questo percorso, che li sostiene, li aiuta a ridefinirsi, che li sollecita all’autonomia. Riprendere delle relazioni positive o rivalutare dei legami che si consideravano fallimentari, ricostruendoli anche alla luce di una visione più profonda dell’individuo, è un passo fondamentale.
La diagnosi di personalità implica andare oltre il DSM e cercare di capire il senso che si cela dietro ai sintomi. Si valutano i tratti di personalità ovvero le tendenze anche prima dell’insorgenza del malessere, gli stili di relazione e d’attaccamento, la capacità di capire le proprie emozioni e i meccanismi di difesa messi in atto. Oltre a questo si valutano le risorse dell’individuo che possono essere impiegate per promuovere il suo benessere. Si valuta, poi, il livello di emotività; la capacità di definire le proprie emozioni, i processi coscienti, gli stili di relazione, d’attaccamento (il modo in cui l’individuo stabilisce una prossimità psicologica, con l’altro).
In questo percorso non dimentico mai che la persona ha la sua individualità che va al di là di qualsiasi classificazione e che la differenza tra il sano ed il “patologico” è una differenza davvero labile stabilita più per convenzione che per altro. Più vado avanti in questo lavoro e più credo, ma questa è solo una mia visione, che ciò che viene definito “patologico” non sia altro che un modo di essere dell’individuo che deve solo trovare la giusta strada per adattarsi all’ambiente. Ad esempio un soggetto con personalità ossessiva attento al minimo dettaglio, che passa il suo tempo alla ricerca di particolari e che non riesce a trovare la sua collocazione in molte attività lavorative perché è molto lento e minuzioso, potrebbe trovare la sua giusta dimensione in una biblioteca o nella ricerca in cui l’attenzione al particolare sono fondamentali. Il mio lavoro, quindi, non è solo aiutare l’individuo a superare le aree problematiche, a ridurre la sua sofferenza ma è anche valorizzare i propri aspetti in modo che trovino la giusta collocazione nell’ambiente. Nell’analizzare i sintomi cerco di ricordare sempre che, per il contesto e le esperienze che il soggetto ha vissuto, quella sintomatica rappresenta la migliore soluzione trovata. (Ping Pao). Per questo non “attacco” le aree problematiche, anzi cerco di fare in modo che la persona si relazioni a me nel modo che lui conosce, secondo le sue aree di funzionamento. Come dice Mitchell: “la psicoterapia è come una danza: l’individuo deve ballare i passi che conosce bene, solo sentendo che questi vengono apprezzati può impararne degli altri. Quindi considero il sintomo come la punta di una iceberg (Freud) o “la migliore soluzione” (Ping Pao, 1979) che consente ad un individuo di raggiungere un equilibrio talvolta angosciante ma comunque “funzionale”. Il trattamento non può avere luogo senza la comprensione e l’attribuzione di senso, per accogliere nella sua interezza, il mondo interno della persona e provare, insieme a lei, a sperimentare “nuovi passi” (Mitchell, 1998) ovvero nuovi modi di essere nel mondo. Due persone affette da disturbo ossessivo-compulsivo, ad esempio, potrebbero avere una personalità con aspetti borderline, psicotici, nevrotici, o nascondere delle perversioni. Per questo le terapie potrebbero essere molto diverse tra loro, in alcuni casi più supportive in altri più interpretative, in altre ancora solo farmacologiche.
Durante la mia formazione ho svolto, oltre alla scuola di specializzazione, anche due corsi biennali di Psicodiagnostica. Nel secondo ho appreso degli strumenti (MMPI, Rorschach, Wais-R e Test di Machover) oltre al colloquio, che consentono di effettuare una diagnosi di personalità. Questi strumenti, permettono di avere una visione molto puntuale e profonda dell’individuo e vengono spesso impiegati in campo peritale per l’affidamento minori, per le perizie psicologiche in campo penale ecc. I quattro strumenti usati insieme consentono di ottenere un livello di attendibilità molto elevato. Non si tratta di pozioni magiche ma di test su cui sono stati effettuati molti studi statistici e su cui sono stati calcolati alti livelli di validità ed attendibilità.
In psicoterapia raramente faccio una valutazione psicodiagnosica completa (con i test), in quanto questo richiederebbe molto tempo, sarebbe molto oneroso per la persone ed inoltre potrebbe inficiare la relazione empatica che si stabilisce all’inizio mettendo il soggetto nella posizione di colui che è osservato. A volte, quando la situazione non è completamente chiara, posso somministrare un test di rapida esecuzione o lettura (solitamente l’MMPI) o in casi gravi posso inviare ad altro professionista che effettui la valutazione (questo sempre per evitare che l’atteggiamento diagnostico vada ad inficiare la relazione terapeutica). A mia volta effettuo valutazioni psicodiagnostiche quando richieste dai colleghi.