Il passaggio dall’essere figli all’essere genitori è uno dei momenti più belli ma anche più complessi della vita. Infatti, oltre al crescente senso di responsabilità, lo stress, il senso di inadeguatezza, possono riemergere conflitti repressi riguardanti il rapporto con i propri genitori e così angosce profonde possono tornare alla luce portando con loro ferite ancora aperte. Allora diciamo che tutto ciò che ancora non è stato elaborato bene può influenzare il rapporto con i propri figli, ma evidenziamo anche che qualcosa di irrisolto dentro di noi può sempre esserci e che nonostante vogliamo bene ai nostri figli gli “errori” fanno parte di tutte le relazioni. Anche il rapporto genitori-figli, quindi è fatto di elementi positivi e negativi. Così, ad esempio, una donna che ha avuto una madre anaffettiva potrebbe cercare di essere una madre perfetta tentando di soddisfare tutti i bisogni del proprio bambino incorrendo, però nel rischio di non supportarlo sufficientemente nei propri bisogni di autonomia. Il genitore tipo “penso a tutto io” non aiuta il ragazzo a sviluppare un senso di autoefficacia o, detto in parole povere, la capacità di camminare con le proprie gambe.
Premesso quindi che la relazione genitori-figli è imperfetta e che alcune problematiche profonde possono influenzare la personalità dei nostri figli, andiamo a vedere cosa succede quando in adolescenza un ragazzo appare in difficoltà.
Come detto altrove, in adolescenza la personalità è in trasformazione e gradualmente si stabilizza il funzionamento psichico dell’individuo mostrando il livello evolutivo raggiunto ed il sistema difensivo articolato. Questo periodo può essere caratterizzato da tensioni elevate dovute alla ridefinizione di Sè, possono riemergere problematiche profonde la cui risoluzione comporta la possibilità di sperimentare nuovi legami, di confrontarsi con l’altro sesso e con il gruppo di pari. I cambiamenti a cui il ragazzo è sottoposto devono necessariamente integrarsi in una nuova unità psichica alla cui base giacciono i modelli relazionali precedentemente acquisiti. La continua trasformazione cui il ragazzo è sottoposto può comportare un malessere psicologico che può manifestarsi sotto forma di oscillazioni dell’umore, rabbia, passaggi all’atto e via dicendo. Il limite tra “normale” e “patologico” può risultare molto labile data la criticità del momento, ma alcuni “campanelli d’allarme” possono aiutarci a capire se potrebbe essere efficace un “aiuto esterno”. Un ragazzo ad esempio che ha un calo improvviso del rendimento scolastico, manifesta difficoltà di attenzione e concentrazione, appare svogliato, si chiude in sé stesso, presenta difficoltà ad interagire con gli altri, passa il suo tempo prevalentemente da solo potrebbe aver bisogno di un aiuto psicologico. Inoltre nelle prime fasi di un disagio psicologico i ragazzi possono apparire, demotivati, possono sembrare disinteressati a tutto o non avere obiettivi da raggiungere o non provare piacere nel fare le cose; manifestano, spesso, segni di tristezza o frequenti oscillazioni dell’umore con impulsività, irritabilità, aggressività. A volte possono manifestare una forte ansia tanto da presentare disturbi del sonno. Un ulteriore segno di malessere può essere la sospettosità o l’eccessivo interesse per tematiche astratte in assenza di capacità concrete. In queste fasi possiamo notare, inoltre, eccessive preoccupazioni somatiche o idee persistenti di essere malati. Non meno importante è l’uso/abuso di sostanze il cui effetto potrebbe “slatentizzare” un eventuale disagio sottostante.
Quello che qui mi preme sottolineare, però, non è tanto come individuare un ragazzo in difficoltà ma le reazioni emotive e comportamentali dei genitori che possono o meno ridurre il rischio di patologia nei figli.
Cosa prova e cosa può fare un genitore quando nota delle “stranezze” nel proprio figlio?
Una reazione comune, soprattutto inizialmente quando ancora il problema è latente, è la negazione del problema. Reazione dettata spesso dall’idea inconscia che se il ragazzo presenta delle difficoltà vuol dire che il genitore è stato un cattivo genitore. Tale equazione è del tutto errata perché le difficoltà emotive emergono da una molteplicità di fattori e quindi la sola relazione non è la causa del problema (leggere anche “le cause dei disagi psicologici”).
Oltre alla negazione spesso possiamo trovare un senso di colpa eccessivo, una sorta di reazione depressiva che incrementa il malessere di tutto il sistema familiare. In tal caso spesso il genitore potrebbe non credere sufficientemente nelle proprie capacità genitoriali rimandando al ragazzo un senso di instabilità che aumenta il suo senso disorientamento ed il malessere del genitore. Talvolta i genitori possono entrare così tanto in ansia da chiedere ai propri figli di essere rassicurati sulla loro “sanità” tanto da portarli a nascondere i propri problemi per non essere di peso.
Un’altra reazione comune è quella di cercare a tutti i costi un colpevole che potrebbe essere l’altro genitore o addirittura il ragazzo, reazione che determina spesso degli attacchi all’altro ed un clima di emotività familiare che incrementa il rischio di patologia.
Quando un genitore si accorge che il figlio sta attraversando un momento critico può, inoltre, sentire il riemergere di tematiche profonde riguardanti il rapporto con i propri genitori che riapre delle ferite ancora dolorose. Così il genitore che voleva essere migliore del proprio che era stato “cattivo con lui” potrebbe avere l’impressione di rivivere la storia una seconda volta, solo che questa volta gli sembra di essere sia “il genitore cattivo” sia il ragazzo ferito. Tutto questo può generare in lui un malessere molto intenso.
In sintesi, di fronte ad un ragazzo in difficoltà un genitore può stare davvero male e questo sicuramente non aiuta.
Cosa fare? Innanzitutto è bene sapere cosa non fare.
Come detto sopra è bene evitare le negazione del problema o il mettere in atto comportamenti quasi autolesivi per riparare un danno che si pensa di aver cagionato al ragazzo e che si immagina irreparabile. Spesso, infatti, i genitori tentano a tutti i costi di soddisfare i bisogni del ragazzo perché si sentono in colpa, ma questo non aiuta il giovane a sviluppare un sano senso di autonomia. Molto meglio è un atteggiamento normativo ma flessibile e soprattutto empatico.
In secondo luogo è bene evitare reazioni aggressive o il cercare un colpevole a tutti i costi, tutto questo non fa che incrementare l’angoscia presente in tutto il sistema familiare. Importante è anche evitare di vivere la rabbia del ragazzo come una sorta di abbandono o di rottura della relazione, o pensare di non essere abbastanza importanti per lui. Ricordiamo che in adolescenza una quota di oppositività è un segno di individuazione e che non sempre la rabbia è patologica.
Una reazione molto diffusa, soprattutto di fronte a ragazzi impulsivi o ribelli, è quella di creare una sorta di ricatto morale che si palesa attraverso il silenzio o togliendo la parola al giovane. Di fronte a questo l’adolescente può pensare che ha solo due strade: o aderire al modello genitoriale, oppure rompere la relazione. Durante la fase adolescenziale il giovane ha bisogno di sentire che può sperimentare un nuovo modello comportamentale tornando però nel suo “porto sicuro” in caso di difficoltà, se tale sicurezza viene negata il ragazzo può sentirsi fortemente disorientato e sperimentare un profondo malessere.
Infine è bene non aggredire nessuno cercando a tutti i costi un colpevole, se ci pensiamo bene la vita è fatta così: se ci viene la polmonite forse è perché abbiamo preso freddo e non ci siamo coperti bene o siamo stati contagiati ma non per questo ci autoaccusiamo in continuazione.
Quando notiamo che un figlio presenta un momento di difficoltà innanzitutto è bene pensare che nulla è perduto: in adolescenza l’intervento può modificare in maniera sostanziale la situazione. E’ bene motivare il ragazzo alla cura evitando di fargli vivere la cosa come un fallimento, ma piuttosto sottolineando che nella vita spesso ci sono dei momenti difficili, che si possono superare. Cercare di dargli risposte empatiche che gli fanno sentire la nostra vicinanza evitando la svalutazione. Quando ci sentiamo sopraffatti, ovvero quando sentiamo che dentro di noi ci sono un mare di emozioni che non riusciamo a decifrare bene che oscilliamo tra rabbia e sensi di colpa, che ci sono liti violente in famiglia, forse è il caso di chiedere una consulenza psicologica. Questo ricordando che non si può essere un individuo perfetto, un genitore perfetto, un marito o una moglie perfetta e che tale imperfezione non è altro che l’essenza della vita.